venerdì 18 febbraio 2011

L'ultimo Partigiano di Dongo.


PAVIA. L’ultimo partigiano di Dongo ha il volto bonario e sorridente di Giacomo Bruni. Fu lui a guidare il camion Fiat 634 che trasportò dal lago di Como fino a piazzale Loreto, a Milano, i cadaveri di Benito Mussolini, della sua amante Claretta Petacci e dei gerarchi. Oggi, a 88 anni, è l’unico ancora vivente dei ragazzi dell’Oltrepo Pavese che scortarono il colonnello Valerio - l’alessandrino Walter Audisio - nella sua missione «più grande di una montagna», a caccia di Mussolini e dei pretoriani di Salò.

 Bruni vive a Perducco, un pugno di case sopra Zavattarello, nell’alto Oltrepò, dove è nato il 20 febbraio del 1922, e dove vive tuttora con la moglie Rosa, sposata nel ’50, e uno dei suoi sette figli, che gli hanno dato undici nipoti e un pronipote. Il filo del suo racconto si dipana da quando, 19enne, venne richiamato alle armi, per arrivare fino all’oggi. Un presente che affronta con 500 euro di pensione al mese, compresa la risibile cifra di 15 euro per meriti di guerra, gli inevitabili acciacchi dell’età e la delusione per il tradimento degli ideali di allora: «Noi lottavamo per la libertà e la democrazia che ci erano state sempre negate - dice con amarezza -. I giovani di adesso stanno perdendo entrambe e neppure se ne accorgono».
 Sullo sfondo, dietro l’ultima abitazione di Perducco, si staglia la mole del castello Dal Verme: rifugio di partigiani, bruciato furiosamente dai tedeschi, poi ricostruito e oggi Museo della Resistenza. Per chi, malgrado tutto, non vuole dimenticare quel giorno di primavera, 65 anni dopo.
 «Nel 1941 ero alpino della divisione Cuneense - comincia così il racconto di Arturo, suo nome di battaglia -. Dovevo partire per la Russia, ma mi ammalai e rimasi al reparto. Mio fratello Cesare fu meno fortunato, andò al fronte e non tornò più. L’8 settembre mi trovavo a Laives, in Alto Adige, con l’artiglieria alpina. Per un giorno e una notte combattemmo contro i tedeschi, poi dovemmo abbandonare l’armamento pesante e con le armi leggere ci ritirammo verso il Veneto. Fui fatto prigioniero a Vicenza e portato in una caserma. Tre giorni senza mangiare, né bere. Ero sfinito. La terza notte me la filai e tornai verso casa, sempre a piedi. Attraversai il Po travestito da prete, la tonaca me la procurò mia sorella».
 Ma a Zavattarello, Bruni era ricercato come disertore. «I fascisti presero in ostaggio mia madre e la portarono via - continua il suo racconto -. Fui costretto a presentarmi al distretto di Tortona e da lì mi trasferirono ad Asti in un campo di aviazione. Quando venni a sapere che l’indomani ci avrebbero deportato in Germania, scappai di nuovo. Nel marzo del ’44 entrai nella banda del Greco e poi nella Crespi».
 E veniamo alla Liberazione. «La notte del 24 aprile scendemmo verso Voghera. Poi a Pavia. Da lì, sui camion presi a tedeschi e fascisti, proseguimmo per Milano. Io guidavo un Lancia Ro, ero il primo della colonna. Entrammo in città da Porta Ticinese. C’erano cecchini ovunque che sparavano dai tetti, dalle finestre. Dovemmo snidare i tedeschi asserragliati alle scuole di viale Romagna».
 Chi la scelse per la missione a Dongo? «Fu il mio comandante Ciro - risponde Bruni -, il colonnello Valerio, e Landini (capo del servizio di controspionaggio delle formazioni garibaldine dell’Oltrepo Pavese) viaggiavano in auto, io ero al volante di un Fiat 634».
 Chi salì a Giulino di Mezzegra da Mussolini? «Valerio, Landini e il commissario politico di Dongo, Martinelli. Al ritorno Landini, che era mio amico, mi confidò che quand’erano arrivati, il duce e la Petacci stavano ancora dormendo. Li svegliarono, dissero a Mussolini che erano venuti a liberarlo e lui esclamò, “Se mi liberate vi regalo l’impero”. Ma ormai l’impero non esisteva più».
 Landini le disse anche chi sparò al duce? «No. Poi da Dongo a Milano. «Caricammo i corpi del duce e dei gerarchi fucilati a Giulino. Giunti alla Pirelli di viale Zara ci scambiarono per fascisti, volevano fucilare Valerio e gli altri. Io rimasi sul camion, non mi avevano visto. Si sparava ancora, una pallottola mi bucò i pantaloni senza ferirmi».
 Infine piazzale Loreto. «La gente voleva fare scempio dei cadaveri, ricordo una vecchietta che sputò addosso al duce. Quando appesero i corpi al distributore, io me n’ero già andato».
 Bruni ha mantenuto per mezzo secolo la consegna del silenzio sui fatti di Dongo e sui nomi di chi partecipò a quella missione. «L’ordine di non parlare - rivela - ce lo diede Ciro. Lo fece per tutelarci da eventuali rappresaglie». I partigiani dell’Oltrepo Pavese di scorta a Valerio contribuirono a formare il plotone di esecuzione dei gerarchi sul lungolago di Dongo. Li comandava il toscano Alfredo Mordini, comunista, figura di spicco delle formazioni garibaldine, che sarebbe venuto in possesso della pistola servita per dare il colpo di grazia al duce. Quell’arma, una Beretta, è oggi conservata al Museo storico di Voghera.

Da Trentino - Corriere delle Alpi 25 aprile 2010.  - Roberto Lodigiani